«La si mangia a quarti, senza l’aiuto delle posate. Non c’è gusto se non la si prende tra le dita». Lo scrittore e professore Pasquale Di Ciaccio dedicò, in un suo libro del 1976, queste parole alla Tiella di Gaeta.
Un piatto popolare per antonomasia: due dischi di pasta a base di farina, lievito, olio extravergine d’oliva, acqua e sale. Riempiti con ogni sorta di companatico, dai prodotti di mare a quelli della terra.
Una storia che nasce proprio attorno al golfo della città laziale, nella provincia di Latina. È qui che, a inizio ‘800, troviamo le prime testimonianze della produzione della Tiella (anche se il nome, derivante dal latino tigella, suggerisce un’origine molto più antica). Come tantissimi piatti della cucina popolare, anche la Tiella nasce per esigenze pratiche: consumare la farina in eccedenza presente nei granai, nonché il pescato giornaliero invenduto.
Così viene fuori l’idea di impastare la farina con l’acqua, l’olio, il lievito e il sale, ottenendo una pasta morbida che viene poi divisa in due parti per ricavare i dischi da imbottire col ripieno. Un adagio popolare vuole che a perfezionare in questo modo la ricetta sia stato Ferdinando IV di Borbone. Il sovrano, così come era solito fare tra le stradine del rione Santa Lucia a Napoli, amava passare le sue giornate con gli abitanti di Gaeta durante le sue visite nel borgo. Magari travestendosi da pescatore o venditore ambulante.
Fu proprio durante una di queste giornate che, si racconta, vide alcune massaie gaetane lavorare dei dischi di pasta a mo’ di pizza. Colpito dalla loro abilità, ebbe l’idea di “raddoppiare” lo strato per ottenere, così, una sorta di pizza farcita che lui stesso definì come «primo, secondo e terzo», a sottolinearne le caratteristiche di piatto molto ben condito. Tanto è vero che, più di 150 anni dopo, lo stesso Di Ciaccio continua così nella sua descrizione della Tiella: «I nostri avi la preferivano condita abbondantemente. L’olio – dicevano – deve poter scorrere sulle avambraccia. Difatti si rimboccavano le maniche prima di mettersi a tavola».
Una buona Tiella, in definitiva, dev’essere compatta, umida nel ripieno, morbida, sottile, ben cotta e – soprattutto – non inzuppata nella sua parte esterna. Nemmeno una goccia del suo ripieno deve colare dal disco di pasta.
Ma con cosa imbottire la Tiella? Non ci sono prescrizioni definite: gli ingredienti sono i più svariati. Dai calamari al baccalà, dalle scarole ai polpi. Quest’ultima è quella più rappresentativa della ricetta: a sottolineare il rapporto inestricabile che Gaeta vive col suo mare, ancora oggi pieno di pescatori che all’alba portano le loro barche al largo.
Dopo la caduta del Regno dei Borbone e durante i primi anni del ‘900, periodo di grandi migrazioni, la Tiella diventa cibo identitario: quello che i contadini gaetani preparavano e mangiavano in giro per il mondo. Il ricordo dei granai, della macinatura, delle reti da calare al largo ritornava fra quei due dischi di pasta cotti al forno e avvolti nella carta stagnola.