Questo è il racconto di un cammino inverso. Chi arriva a Napoli, di solito, supera i confini della vecchia murazione cittadina – oggi quasi del tutto scomparsa – e si dirige verso il cuore del centro storico. I mie passi vanno, invece, in direzione contraria: verso i rioni popolari che conservano – unici in tutta la città – le testimonianze della Napoli Aragonese e Rinascimentale.
Costeggio gli antichi tribunali e mi dirigo verso l’imponente arco di Porta Capuana, così definita perché posta sull’antica via che conduceva nella città ducale di Capua. Il cuore vivido della Napoli popolare si esprimeva qui, fra mercati e bancarelle di ambulanti; nei primi anni del Novecento questo era il quartiere dove ci si aspettava di trovare sempre pesce fresco e a buon mercato.
Uno dei piatti più richiesti era ‘o broro ‘e purpo, anche se è improprio definirlo piatto. Il polpo veniva fatto bollire per circa 20 minuti in un pentolone ricco d’acqua, con aggiunta di sale e pepe. Dopodiché si prendevano i tentacoli e si tagliavano in piccoli pezzi, mettendo da parte la testa. Il tutto – l’acqua infusa di polpo e i pezzetti di tentacolo – veniva poi messo in una tazza. Un sorso caldo e soddisfacente, che rimetteva al mondo gli avventori durante le giornate più fredde e ventose.
Oggi purtroppo il brodo di polpo è quasi del tutto scomparso dal panorama dello Street Food napoletano. Pizze e fritture si vendono a ritmi sincopati; ‘o broro ‘e purpo è ormai una rarità. Ma nella storica zona di Porta Capuana, tra il Borgo Sant’Antonio Abate e via Foria, cioè tra le strade e le piazze che lambiscono il centro, c’è ancora qualcuno che resiste. Una Napoli liminale; che molti considerano di passaggio ma che, se conosciuta, rivela un fascino irripetibile altrove.
Con due soldi si compera un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta.
Matilde Serao – “Il ventre di Napoli”
‘O broro ‘e purpo viene tutt’oggi preparato in grossi pentoloni e agitato con un mestolo, per poi essere servito in tazza. Gli ingredienti, come anticipato, sono tre: sale, pepe e polpo, cui si aggiungono acqua e – per chi vuole – limone. Una preparazione talmente semplice da risultare complessa. Sì, perché il bilanciamento è tutto, nei sapori e nella scelta dei prodotti da utilizzare.
Mattia Grossi, proprietario della trattoria È pronto ‘o mangià, fa parte di una famiglia di venditori storici di brodo di polpo. Lo incontro nel suo ristorante, seduto a uno dei tavoli, tra foto quasi centenarie che raccontano la sua storia e quella di quattro generazioni di venditori di brodo. Il suo consiglio è quello di partire «da un polpo decongelato, che non presenti fibre troppo resistenti. Altrimenti, dopo mezz’ora di bollitura, viene fuori un purpo duro e stopposo».
Qualche centinaio di metri più su, risalendo via Cesare Rosaroll, trovo Raffaele detto ‘O Mericano, dal soprannome che fu di suo padre Alfonso, proprietario di un chiosco in via Foria. Il suo segreto per un brodo di polpo fatto a regola d’arte? «Il pepe», risponde sicuro. L’obiettivo di questa ricetta è riscaldare corpo e palato, oltre che nutrire. Il pepe restituisce quella sensazione di calore, di aromi e di piacere che solo una spezia così, tritata al momento, può regalare. Insomma: gli ingredienti sono pochi, ma guai a sceglierne di dozzinali.
Se poi si preferisce un sentore più delicato, basta mettere meno pepe e aggiungere il limone, così come fa Enzo di Addò figlio e Carlucciello, forse l’unica pescheria a Napoli che ancora oggi propone il brodo di polpo tra astici, vongole e spigole appena pescate. Se poi si vuole ritrovare un po’ di spessore piccante basta aggiungere ‘o russo: un olio piccante che i pescivendoli e i ristoratori napoletani di questa zona producono in proprio. In famiglia. Così come ‘o broro ‘e purpo resta una tradizione familiare che resiste ai richiami di una modernità gastronomica dove fritti e forni sembrano dettare legge.