Da alimento di prima necessità a spuntino voluttuario. Quel che è certo è che il tarallo napoletano, o meglio tarallo ‘nzogna e pepe (strutto e pepe), è la leccornia più democratica che abbia mai sfornato la città di Napoli.
Uno snack per tutte le tasche da sgranocchiare durante una passeggiata al centro storico, in un aperitivo trendy o sugli scogli di Mergellina. Il tarallo è un elemento pop del neapolitan street food. Masticare questa ciambellina salata color tabacco ti rimanda ai colori dello scoppiettante “Vesuvius” di Andy Warhol o alle emozioni pirotecniche vissute nel golfo di Napoli la notte di Capodanno. Un gusto acceso che si traduce in immagini.
Il crunch è più morbido di un morso dato a un biscotto. Il tarallo, infatti, è reso fragrante dallo strutto che gli conferisce subito un sapore deciso e avvolgente. Il pepe gli dà quel tocco piccante ed esotico che titilla il palato. Un aroma pungente che viene mitigato delicatamente dalla dolcezza delle mandorle. Un assaggio ad occhi chiusi ti conduce per pochi secondi a Napoli ovunque tu sia. Certo, il grasso di maiale lo rende un nemico della vegan cuisine. Pazienza… Il tarallo ha un’anima che non può essere certo “mortificata” dall’olio di arachidi!
Questo anellone biscottato è ormai utilizzato come finger food nei buffet. Ultimamente alcuni ristoranti lo sbriciolano su grandi classici come gli spaghetti alle vongole, mentre le enoteche lo accoppiano nei cestini insieme al pane per accompagnare salumi e formaggi. In ogni caso, i napoletani lo preferiscono come sfizio per zittire il brontolio dello stomaco. Proprio come accadeva ai loro avi meno fortunati.
“…servono specialmente per rifarsi la bocca dal sapore disgustoso dell’acqua sulfurea di Santa Lucia, nella cui virtù il popolo ha molta fede. Per cinque centesimi si può avere alla fonte un bicchiere d’acqua e quattro taralli e si può essere serviti, per di più, da una donna tutt’altro che linda e pulita”.Carlo Collodi – “Il viaggio per l’Italia di Giannettino”
Il tarallo, infatti, è figlio della fame. Nel “Ventre di Napoli”, la scrittrice Matilde Serao descrive i famosi “fondaci“, ossia le zone popolari adiacenti al porto dove vivevano persone denutrite. Il ventre di Napoli brulicava di gente, ma il ventre di quella gente era paurosamente vuoto. Dalla fine del ‘700, a riempirlo ci pensarono i taralli: costi bassi ed alto contenuto calorico. I beniamini del popolo divennero i fornai, i quali capirono che la pasta del pane era come il maiale: non si butta via niente. Quindi, con lo “sfriddo” (avanzi di pasta lievitata) modellarono due striscioline attorcigliate tra loro unite agli estremi come un bracciale ed impreziosite da strutto, pepe e mandorle. Uscite dal forno si presentavano come dei gioielli appetitosi da consumare in sei bocconi e con poche monete.
In questo periodo nasce un personaggio mitologico: il tarallaro. Era un venditore ambulante con una cesta in spalla colma di taralli coperti da un panno, e li vendeva in strada ben caldi gridando “taralle, taralle cavere!” (“taralli, taralli caldi!”). Oggi questa figura è scomparsa. I tipici taralli sugna e pepe si possono comprare nei panifici, dagli acquafrescai del centro storico e nei chioschi sul lungomare.
La sua friabile consistenza lo spinge ad abbinamenti con le bollicine. Si può apprezzare con un vino sgrassante come il Gragnano e soprattutto con una birra ghiacciata, che pulisce la bocca con freschezza ed effervescenza senza coprirne la fragranza. E pensare che l’antica tradizione lo vorrebbe inzuppato nell’acqua di mare. Cambiano gusti ed usanze, ma la veracità del tarallo è sempre à la page.