Tra le montagne che abbracciano Laceno, nel comune di Bagnoli Irpino, sembra che gufi reali e marmotte spiino segretamente i passi di chiunque si addentri tra questi boschi, tanto la natura è avvolgente.
Ma il vero re di questo polmone verde d’Irpinia è un fungo solitario e riservato, che vive a quota mille, sotto terra, lontano da occhi curiosi e passi invadenti: il tartufo nero.
Lorenzo, un cavatore di 29 anni, ci accompagna in questa avventurosa ricerca del Nero di Bagnoli, insieme ai suoi due instancabili segugi: Luna e Nuvola. Luna ha 3 anni e tutta l’esuberanza dei cocker. Nuvola invece è un beagle, caso unico per la caccia al tartufo, ed è una piccola campionessa di buche. Un vero e proprio truffle detector a quattro zampe che una volta ha portato a casa una pepita di 600 grammi! «Preferisco le femmine – scherza Lorenzo – I maschi si distraggono più facilmente perché pensano a marcare il territorio o confondono la caccia al tartufo con quella alle cagnette».
Luna e Nuvola sono le star di questa avvincente battuta, Lorenzo è il loro assistente: le incita come farebbe l'allenatore con un pugile sul ring. Alte poco più di 35 centimetri, corrono all'impazzata nel bosco frugando col naso tra le radici di faggi e pini neri e facendo brevi soste per una bevuta di acqua piovana nelle conche degli alberi. Tra loro c’è una gerarchia e la più esperta fa da apripista alla collega meno navigata.
Quando sbuffano alzando la polvere del suolo e agitano briosamente la coda vuol dire che il tesoro è sotto terra… Eureka! Bisogna solo scavare, raccogliere il diamante grezzo e richiudere la buca per far sì che il fungo possa rigenerarsi. Un canovaccio che si ripete tutti i giorni dall’1 settembre al 15 aprile, da un’ora prima dell’alba a un’ora dopo il tramonto.
«Sono diventato cavatore grazie all'amore che nutro per i cani – ci dice Lorenzo – L’insegnamento viene col gioco: inserisco dei pezzetti di tartufo nell'involucro di plastica di un ovetto a sorpresa, lo nascondo ed il cane comincia a cercarlo. Una volta trovato, me lo porta e lo premio con un biscotto. Durante la caccia giochiamo allo stesso modo, l’importante è che i cani siano digiuni così si concentrano per ottenere la ricompensa».
Il cavatore è geloso della sua tartufaia come un ricercatore d’oro può esserlo di una miniera. Sono banditi i consigli su dove cercare queste eccellenze. «Dietro non si nasconde solo il business – precisa Lorenzo – ma anche il sacrificio speso alla ricerca di zone dove si celano i tartufi». Gli unici competitor che non puoi battere sono i cinghiali, tanto ghiotti di queste primizie da devastare i terreni.
Ingiustamente declassato a Tartufo Nero Ordinario, il Nero Bagnolese si chiama tecnicamente Tuber Mesentericum Vitt dal nome del botanico milanese Carlo Vittadini, che nel 1835 lo inserì nel suo volume “Tutti i tartufi d’Italia”. La parte interna, di colore grigio scuro, è caratterizzata da venature bianche che ricordano l’intestino (dal latino mesentericum che significa simile all’intestino).
Delle dimensioni di un uovo, ha la forma di un globo irregolare. La scorza è scura e verrucosa. Il profumo è penetrante, simile al catrame, e ricorda l’acido fenico. Il sapore è delicato con un retrogusto leggermente amaro.
La sua particolarità sta nel fatto che può essere consumato anche cotto, al contrario degli altri tartufi che in cucina si usano rigorosamente a crudo. Ottimo ingrediente per le classiche fettuccine o per i ravioli a base di pecorino bagnolese e ricotta di pecora, da preparare con burro e salvia. Può essere grattugiato su un uovo all’occhio di bue o su una fetta di caciocavallo caldo. Ma anche come condimento nella tradizionale insalata da unire a papaccelle (particolare tipo di peperone), olive verdi ed alici.
Il tartufo non manca mai nelle case dei bagnolesi che lo mangiano sempre freschissimo. Si può conservare, infatti, per pochi giorni in frigo avvolto in un foglio di carta da cucina all’interno di un barattolo di vetro ben chiuso. O anche nel riso, aromatizzandolo per cucinare un succulento primo piatto.
«Oggi il Nero di Bagnoli è trascurato rispetto agli altri tartufi perché poco sponsorizzato», ci spiega il prof. Michelino Nigro, esperto di storia irpina. E automaticamente viene deprezzato: costa circa 150€ al chilo, mentre gli “scarti” (rovinati dal cane durante la scavatura) valgono meno della metà. Eppure è un fungo ipogeo glorioso. «Nel 1734 Carlo III di Borbone fu accolto ad Avellino con un cesto di tartufi – ci racconta Nigro – Più tardi, nel 1806, anche Giuseppe Bonaparte fu omaggiato con questo prezioso dono. Nel 1850 fu pubblicata una mappa delle produzione del Regno delle Due Sicilie in cui il paese di Bagnoli Irpino era segnalato con l’icona del tartufo. Da quel momento è diventato il simbolo della nostra comunità e a riceverlo sono state tante personalità: dal re Vittorio Emanuele III di Savoia al Presidente della Repubblica Sandro Pertini».
Un prodotto d’eccellenza che racconta la storia e le tradizioni di un popolo fiero, schivo e caparbio come il Nero di Bagnoli.