Come sarebbe camminare in una stanza in cui frammenti di ricordi, voci e percezioni hanno forma e colore? E se questa stanza fosse l’universo interiore di un artista nato a Napoli ma da sempre nomade?
La stanza sarebbe una sala del Museo Madre, quella dedicata a Francesco Clemente. Nel 2005, quando un palazzo ottocentesco di Via Settembrini divenne la sede del Museo di Arte Contemporanea Donnaregina di Napoli, artisti del panorama internazionale furono invitati a realizzare opere pensate per un luogo specifico. Tra questi c’era Clemente, autore di “Ave Ovo”. Un saluto alle origini, un saluto al nuovo museo che era riuscito a riportare l’artista nella città natia.
Francesco Clemente, infatti, nacque a Napoli e iniziò presto a vagare: si trasferì a Roma dove studiò per un po’ architettura e incontrò artisti come Alighiero Boetti, rivelatisi poi fondamentali per il suo percorso. A 19 anni si ritrovò in India per un viaggio che gli aprì nuovi orizzonti spirituali, un’esperienza che fece di questo paese uno dei suoi luoghi preferiti. Poi fu a New York, e non in un periodo qualsiasi, ma negli anni ‘80, il decennio di Andy Warhol e Basquiat. Posti lontani e distanti tra loro che smossero la ricerca artistica di Clemente, sempre così frammentaria e discontinua, come i suoi autoritratti che divennero il motivo ricorrente della sua arte.
Un autoritratto è anche al centro della monumentale opera napoletana “Ave Ovo”, che sorprende per la tecnica utilizzata: affresco alle pareti e maioliche nel pavimento. Insolito per un artista contemporaneo, ma non per Francesco Clemente che fece della sperimentazione la sua cifra, dalla pittura al mosaico. L’omaggio alle riggiole napoletane, come quelle di San Giovanni a Carbonara o del Chiostro di Santa Chiara, è in un pavimento dall’aspetto quasi classico per i colori usati (verde, bianco, giallo e blu) ma psichedelico per le forme umane e animali che mostra e nasconde allo stesso tempo. Come moderno è il vortice di colori e corpi che affolla le pareti, su due livelli: un affresco che è un taccuino di viaggio su cui sono stati appuntati momenti e stati d’animo, che solo chi ha vissuto in prima persona è in grado di decifrare.
Ci sono però degli oggetti che parlano un po’ a tutti, simboli che fanno parte di una spiritualità partenopea, come i teschi, la maschera di Pulcinella e poi l'autoritratto che prende le sembianze quasi di una divinità. Non serve attribuire un significato univoco a ciò che si vede, bisogna invece seguire il flusso che attraversa la sala. Chi entra in questa stanza del museo Madre non può fare a meno di fermarsi e mettersi in ascolto del racconto che viene da lontano, dalle origini.