Non c'è nulla di rimpianto come le cose che si abbandonano per poi pentirsi. È stato questo il destino di tanti borghi lasciati decadere, per la minaccia di una presunta insicurezza, e poi riconquistati, spesso addirittura contesi, in nome di un nuovo interesse a ritmi di vita dimenticati e oggi tornati all’attenzione.
Il centro storico di Calcata, in provincia di Viterbo, è addirittura diventato di moda, fino a costituire una meta obbligata per le gite domenicali dei romani in cerca di un momento meno frenetico. E ancora di più per chi cerca un’immersione nella Storia, da respirare nei vicoli, tra muri antichi, balconcini fioriti e gatti addormentati, più che da imparare nei musei.
La fortuna del borgo è corrispondente alla sua condanna: lo sperone di tufo su cui sorge l’abitato, a due chilometri appena dal centro nuovo, è oggi sicurezza di isolamento e pace allo stesso modo in cui nel passato era garanzia di difesa, come ricorda l’unico ingresso aperto sulle mura fortificate, aggrappate alle rocce coperte di licheni, sopra lo strapiombo.
Tutto intorno il paesaggio è verde, in mille diverse sfumature, con la colonna sonora fornita dallo scrosciare dell'acqua ghiacciata del fiume Treja.
Lo avevano definito “paese che muore”, per i frequenti crolli della rupe che mettevano a rischio le case. Secondo la tradizione, fu qualche cavillo della burocrazia a impedire l'abbattimento totale delle case.
Ma fu soprattutto l’atmosfera irripetibile del borgo fantasma a sancirne la rinascita, fra registi intenzionati a usarne i vicoli come sfondo per commedie o vicende sul limite del surreale, intellettuali decisi a godere del silenzio o artisti e artigiani ansiosi di convogliare nelle proprie produzioni lo spirito di Calcata.