«Il popolo due sole cose ansiosamente desidera: pane e giochi circensi», così la pensava Giovenale. In poche parole riassume gli interessi della plebe romana, o almeno di coloro che davano consenso ai potenti in cambio di pane e di spettacoli gladiatori gratuiti.
Questa espressione, al di là della critica sociale, non lascia dubbi sulle preferenze degli antichi romani in fatto di intrattenimento: il brivido generato da un combattimento tra gladiatori, lo spettacolo tra vita e morte nell’arena non conosceva rivali.
Non a caso, appena una nuova grande città veniva conquistata, bisognava costruire un anfiteatro: è quanto accade anche a Pozzuoli, dove si conservano ben due edifici destinati ai giochi, uno di età repubblicana, detto minore, e uno risalente all’età flavia, terzo in Italia per dimensioni.
Dopo il più noto Anfiteatro Flavio di Roma e l’Anfiteatro Campano di Santa Maria Capua Vetere, c’è l’Anfiteatro Flavio di Pozzuoli con la sua maestosa arena e i suggestivi sotterranei, perfettamente conservati.
Nelle viscere dell’anfiteatro, tra archi e corridoi si rincorrono le voci del passato di chi lì lavorava per garantire effetti scenici sorprendenti, come l’arrivo nell’arena di una bestia feroce, issata attraverso un sistema di carrucole. Fuoriusciva dalla botola l’animale e lo spettacolo si faceva ancora più avvincente: non solo leoni e tigri, ma anche orsi, elefanti e struzzi, utilizzati per le venationes (combattimenti con i gladiatori) e per la damnatio ad bestias ovvero l’esposizione dei condannati a morte alle bestie, senza possibilità di scampo.
A meno che il condannato non fosse in odore di santità, come i martiri cristiani e come San Gennaro che proprio nell’anfiteatro di Pozzuoli passò attraverso l’atroce supplizio uscendone indenne: alla vista del santo i leoni si fecero docili e quieti, costringendo gli aguzzini ad optare per la decapitazione presso la solfatara di Pozzuoli. L’episodio è raccontato da un bel dipinto di Artemisia Gentileschi, conservato nella cattedrale puteolana, mentre nell’anfiteatro c’è una piccola cappella chiamata San Gennaro ad carceres proprio a ricordare la detenzione del santo.
“Vetus proverbium est gladiatorem in arena capere consilium: aliquid adversarii vultus, aliquid manus mota, aliquid ipsa inclinatio corporis intuentem monet”.
“Dice un vecchio proverbio che il gladiatore decide le sue mosse nell’arena: gliele suggeriscono il volto dell’avversario, i movimenti delle mani, l’inclinazione stessa del corpo, che egli studia attentamente”.Seneca - Epistulae Morales Ad Lucilium
Quello dei condannati a morte era uno dei momenti della lunga giornata di intrattenimento all’anfiteatro, intervallato da momenti più ludici, che culminava nel combattimento vero e proprio. Armi, schinieri, protezioni per le mani, scudi di diverse dimensioni e il gladio, così si affrontavano le coppie di gladiatori incoraggiati, esaltati dalle grida della folla disposta nelle sedute della cavea.
Tra scambi, movimenti studiati e colpi piazzati si consumava lo spettacolo fino a quando uno dei due non soccombeva. A quel punto dagli spalti si udiva o iugula, colpiscilo alla giugulare, o mitte, riponi l’arma, e non sempre l’epilogo prevedeva la morte dello sconfitto. Sicuramente, invece, fama, soldi e le attenzioni delle donne attendevano il vincitore.