L’estasi del ragù

L’estasi del ragù

La cucina è tante cose: tradizione, evoluzione, ma anche disparità di vedute. Persino  per quanto riguarda le ricette “classiche”, quelle che definiscono l'identità di un luogo e danno forma alla memoria di ognuno. Il ragù napoletano, senza dubbio alcuno, è una di queste.

Piatto dell'anima, prima che del palato. Ogni napoletano, di città o di provincia, saprà raccontarci di quando, la domenica mattina, si svegliava con l’odore del caffè misto a quello del ragù che peppiava in cucina. Preparazione lunga e complessa, per cui è necessaria “la pazienza di Giobbe”, come diceva Eduardo De Filippo: carne e pomodoro su un letto abbondante di olio extravergine e cipolla tritata finemente. Una volta si utilizzava lo strutto. Ora i tempi sono cambiati, i gusti si sono affinati e si predilige una consistenza più leggera. Ma la querelle è sempre dietro l'angolo perché non esiste un'unica ricetta del ragù.

Potrebbe suonare strano a chi ha sempre identificato questo piatto con la napoletanità in cucina. Eppure è così: basta ricordare la famosa scena del macellaio in “Sabato, Domenica e Lunedì” con Sophia Loren, dove per poco non si viene alle mani per decidere quali siano i tagli migliori di carne da mettere a cuocere in pentola, a fuoco dolce.

C'è chi predilige il bovino in purezza, tra lacerto e sovracoscia; chi ama la locena (il taglio del bovino che va dal collo alla punta di petto) sotto forma di “brasciola” arrotolata; chi, invece, preferisce il misto di manzo e maiale, aggiungendo le “tracchie” (vale a dire le costine) e persino la salsiccia. La questione degli ingredienti necessiterebbe di un libro a parte.

La cottura, dicevamo. I tempi sono lunghi e dilatati. “Il ragù non si prepara: si consegue”, diceva lo scrittore Giuseppe Marotta. Quasi fosse un titolo di studio, una laurea tanto agognata. Cinque o sei ore è il tempo minimo sindacale affinché si possa parlare di ragù e non di carne col pomodoro, tornando a parafrasare Eduardo De Filippo. 

“Mò ce avèssem' appiccecà? Tu che dice? Chest'è rraù? E io m'a 'o mmagno pè m' 'o mangià... M' 'a faje dicere na parola? Chesta è carne c' 'a pummarola”
“Ora dovremmo litigare? Tu che dici? Questo sarebbe ragù? Io lo mangio per mangiare… Ma mi fai dire una parola? Questa è carne col pomodoro”
Tratto da “‘O rraù” di Eduardo De Filippo

Tradizione vuole – e qui c'è sostanziale concordanza – che il ragù vada fatto cuocere lentamente, a fuoco dolce, per tutta la notte, fino a raggiungere la consistenza desiderata e quel colore “palissandro scuro”, come ci ricorda la nostra chef Alessandra Calvo leggendo “Si cucine cumme vog’i’” di Isabella Quarantotti (moglie di De Filippo), che identifica un ragù riuscito alla perfezione.

Torniamo alla parola peppiare, che già nella sua pronuncia svela un’essenza onomatopeica. «Quella fase [...] allorché dal fondo della pentola dove è in cottura la salsa di carne e pomodoro, affiorano ripetutamente in superficie delle bolle d'aria che, al culmine della tensione, si rompono producendo un suono simile a quello che produce chi tira una boccata di fumo dalla pipa», scrive Raffaele Bracale, scrittore e gastronomo napoletano. «Il toscano traduce in maniera piuttosto imprecisa e superficiale: sobbollire».

Il segreto per far peppiare la salsa, ricorda sempre Bracale, è non coprire totalmente col coperchio la pentola dove il ragù sta cuocendo, ma tenerla un po’ aperta con un cucchiaio di legno, in modo da far passare l'aria necessaria affinché il peppiare non diventi bollore.

Nel corso degli ultimi decenni, in particolare nel secondo Dopoguerra, il ragù è assurto a piatto simbolo della domenica napoletana: ricchezza, opulenza, soddisfazione, uniti a un costo sostanzialmente basso, hanno fatto di questa ricetta il simbolo delle case popolari, dei vicoli e dei fondaci.

Eppure, a ben guardare, si tratta di una delle preparazioni più “giovani” fra quelle del ricettario storico partenopeo, sicuramente in fasce rispetto alla Genovese o ad altri sughi che non comprendevano il pomodoro (che a Napoli si diffonde durante l’800).

Eppure, tornando al discorso della memoria, l'odore della carne misto a quello del pomodoro – tra bottiglie di conserva preparate in casa – accende ricordi quasi ancestrali dopo che, con l'espressione soddisfatta dipinta sul volto, togliamo per un attimo il coperchio dalla pentola. Per osservare ipnotizzati quel peppiare che ci rammenta come la cucina sia dolcezza del ricordo e armonia dei sensi.

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