Numero
26

La modernità d''o pere e 'o musso

La modernità d''o pere e 'o musso La modernità d''o pere e 'o musso

C’era una volta il carnacuttaro. Fino a qualche decennio fa, per le strade dei quartieri popolari di Napoli, era frequente trovare dei carri ambulanti che servivano frattaglie e interiora bollite, raffreddate e servite nei modi più disparati. Da qui la definizione di carnacuttaro: colui che, letteralmente, cuoce la carne.

Uno dei prodotti più in voga fra questi antichi custodi della tradizione popolare era 'o pere e 'o musso. Piede di maiale e muso di vitello, quelli comunemente considerati come scarti, venivano messi assieme e preparati secondo il procedimento di depilazione del pezzo, bollitura e successiva raffreddatura (spesso su ghiaccio), poi conditi con sale e limone. Ancora oggi, la tradizione è viva fra le strade del centro storico napoletano, oltre che in molti paesi della popolosa provincia.

“La sua voce è la seguente: Tengo o musso, o pere 'e puorco, o callo 'e trippa!”
Antonio Altamura descrive le grida di un carnacuttaro nel suo “Dizionario dialettale napoletano”

Consumato sia al piatto che nel classico cuoppo da asporto, 'o pere e 'o musso vanta una storia secolare: erano i primi dell’Ottocento quando i monzù di corte, chef francesi chiamati dalla regina Maria Carolina per introdurre l’arte della cucina transalpina nel Regno dei Borbone, solevano eliminare le parti più povere degli ingredienti utilizzati nelle cucine.

Tali ingredienti venivano – senza troppi complimenti – gettati al popolo, in particolare alle donne che scendevano dai quartieri popolari e affollavano il Largo di Palazzo per accaparrarsi quello che era pur sempre cibo. Voilà les entrailles, urlavano i francesi. Ecco le viscere. Da qui la “storpiatura” in dialetto napoletano della parola, che diventa “le Zendraglie”. Definizione che finì per designare le donne stesse che accorrevano ai piedi di Palazzo Reale.

“Non m’haie legato, strega fattocchiara, perchiepetola, brutta zantragliosa?”
“Non mi hai legato, strega fattucchiera, pettegola, brutta cafona?”
Così inveisce Ciullo contro Cenza nella “Vaiasseide” di Giulio Cesare Cortese

Pian piano, nel corso dell’ultimo Ottocento e di tutto il Novecento, 'o pere e 'o musso è passato dall’essere prodotto di scarto a vero e proprio cult della cucina popolare partenopea. Una gustosa porzione condita di sale e limone vale tutt’ora il viaggio, immergendosi nel vivace calore dei vicoli, dalla Pignasecca a Porta Capuana. Un recupero della cucina popolare che, nel corso degli anni, ha fatto tornare in auge altri piatti tipici della tradizione povera, come la zuppa di soffritto (altrimenti detta zuppa forte, per la sua tipica piccantezza) o la classica trippa.

Alla classica porzione d''o pere e musso, composta appunto dalla sola zampa suina e dal muso del vitello, si possono accostare altri ingredienti, come l’utero della mucca, il retto o i quattro stomaci del vitello stesso, i piedini del capretto. Roba per stomaci forti? A leggerlo, forse sì. Nella pratica, parliamo di ingredienti gustosi e nutrienti, che non a caso servivano – in passato – a riempire lo stomaco delle famiglie meno abbienti. La cucina popolare però, si sa: è povera, ma non rinuncia mai al gusto. Il pere e musso non fa eccezione!