Lo Spielberg d’Irpinia sopravvive, impregnato di storia e di storie, in uno dei comuni più belli dell’entroterra campano: Montefusco.
Affacciato su uno splendido e arioso vallone tra Avellino e Benevento, a metà strada tra il Sannio e l’Irpinia, Montefusco nel corso dei secoli ha svolto un ruolo cruciale nell’amministrazione della giustizia. Nel XV secolo i sotterranei del Castello furono adibiti a carcere giudiziario. Ogni Principato ne aveva uno e a Montefusco risiedeva quello di Ultra.
Una nota programmatica, emanata dai viceré di Napoli intorno al 1600, chiedeva che le galere non fossero né tenebrose né fetide perché non erano destinate alla pena ma alla custodia. Quella di Montefusco era invece buia, umida, sotterranea e così fetida che d’estate chi risiedeva nei piani superiori del castello doveva sloggiare, tanto era intensa la puzza che saliva dal basso.
Ma fu solo nel XIX secolo che lo Spielberg d’Irpinia consolidò la sua fama di carcere duro. Quando Ferdinando II di Borbone, preoccupato che le istanze unitarie caldeggiate da Cavour potessero attrarre le menti più brillanti del suo Regno, attuò una ferocissima e sanguinosa repressione. E i dissidenti politici catturati vennero portati nel carcere di Montefusco, in modo da renderli inoffensivi. D’altronde quale luogo avrebbe potuto garantire meglio l’isolamento dei detenuti, se non un paesino arroccato sulla montagna a 700 metri di altezza e lontano da tutto, soprattutto da Napoli?
“Chi trase a Montefuscolo e po’ se n’esce po’ dì ca ’n’terra ’n’ata vota nasce”
“Chi entra a Montefusco e poi ne esce può dire che in Terra nasce di nuovo”
Lì le idee rivoluzionarie e liberali di stampo cavouriano non sarebbero mai arrivate. Quali pene subissero i detenuti politici all’interno di quel carcere è testimoniato da alcune frasi ritrovate incise sulle imposte di legno: “Proverbio non fallisce che né carceri né galere cacciano fuori uomini da bene”.
Il barone Nicola Nisco, Carlo Poerio, già Ministro di Ferdinando II e Michele Pironti, furono rinchiusi a Montefusco fino al 1859, quando l’ergastolo fu tramutato in esilio. E hanno documentato la violenza e le umiliazioni subite durante la detenzione: perquisizioni quotidiane, mancanza di letti, nessuna speranza di privacy, spazi ristretti, poca luce, punizioni corporali.
Chiunque mostrasse rispetto o empatia per i poveri detenuti, veniva prima guardato con sospetto e poi punito severamente. Persino un usignolo che allietava le giornate dei prigionieri con il suo canto melodioso, fu spietatamente ucciso da una delle guardie, ha raccontato nei suoi diari il duca Sigismondo Castromediano da Lecce, come riporta un ben documentato sito dedicato alla storia di Montefusco e al brigantaggio.
Oggi quel luogo di pene e di torture è immerso nel silenzio del paese e illuminato da tiepidi raggi di sole, quando la giornata è buona. Nel 1928 è stato dichiarato monumento nazionale e successivamente è stato ristrutturato, ma quando si oltrepassa la porta di quel sotterraneo, non è difficile immaginare di quanta violenza e di quanti soprusi siano state testimoni quelle pareti.