Pompei è una città che parla con i suoi silenzi e la sua apparente immobilità. Ciò che resta di un’antica civiltà sorta tra la fertile terra vulcanica e il mare, prima che lo “sterminator Vesevo” la ricoprisse di cenere e lapilli roventi, comunica ancora i suoi segreti.
Il primo dei quali è una domanda cui oggi riusciamo finalmente a dare una risposta: quando avvenne l’eruzione? Quand’è che l’esplosione del cratere investì, di colpo, la vitalità di una città cosmopolita e aperta al mondo? L’anno è chiaramente noto: il 79 dopo Cristo. Ma il giorno?
Fonti che risalgono a Plinio il Vecchio e a suo nipote, Plinio il Giovane, ci riportano alla fine dell’estate. Il 24 agosto, scrive Plinio il Giovane nella sua prima lettera a Tacito, suo zio «Era a Miseno e, presente, governava la flotta. Il 24 agosto era trascorsa appena un'ora dopo mezzogiorno e mia madre gli mostra una nuvola che allora appariva, mai vista prima per grandezza e figura. [...] La nube si levava, non sapevamo con certezza da quale monte, poiché guardavamo da lontano; solo più tardi si ebbe la cognizione che il monte fu il Vesuvio».
Tutto risolto? Forse no. Proprio perché Pompei è una città mai muta, le ricerche e gli scavi operati nel corso dell’ultimo secolo hanno evidenziato alcuni particolari che forse non tornano con il racconto che ci fa Plinio il Giovane. O, almeno, con quello che ci è stato tramandato dagli amanuensi d’età medievale che ricopiavano i testi antichi.
Due elementi: il ritrovamento di alcuni tipi di frutta e un’iscrizione, presente nella Casa del Giardino, ancora oggi chiusa al pubblico e oggetto di studi. Andiamo con ordine.
Siamo negli ultimi anni del Diciannovesimo secolo. Pompei è un cantiere a cielo aperto. La famiglia Reale dei Borbone comprende bene che quell’immensa città sommersa nella viva terra è un’occasione irripetibile per veder aumentato il proprio prestigio di regnanti, anche presso le altre corti europee. Chi altri, d’altronde, può vantare un simile tesoro archeologico risalente all’antica Roma (se non prima?). Le operazioni di scavo vanno quindi avanti in modo costante e laborioso. Fino a che non vengono ritrovati i resti di alcuni frutti. Anch’essi perfettamente conservati e distinguibili l’uno dall’altro.
Anzitutto dei grappoli d’uva, rotondi e perfettamente maturi, probabilmente pronti per la vendemmia. Accanto ad essi frutta di varia natura: melograni, noci, fichi secchi e anche delle mandorle. Rinvenimenti che diedero da pensare, visto che parliamo sì di frutta presente anche ad agosto (come uva e fichi) ma giunta a uno stato di maturazione tale che ne fa presumere la presenza sulle tavole in autunno, e non in piena estate.
Da questo indizio si pensò di riformulare la data dell’eruzione: non agosto, ma un mese compatibile con i ritrovamenti. Un mese in cui la raccolta fosse già avvenuta e i frutti erano già disponibili per la popolazione pompeiana: ecco subentrare l’ipotesi che il mese della tragedia fu ottobre.
Arriviamo così all’iscrizione. Che, oltre al mese, ci aiuta a definire persino il giorno. È su un muro della Casa del Giardino, come dicevamo, che nell’ottobre 2018 viene ritrovata una frase incisa a carboncino, «che potrebbe essere opera di un operaio buontempone che l’ha scritta sul muro di una stanza in ristrutturazione», come dice il direttore generale degli Scavi, Massimo Osanna.
Ciò che è importante per la datazione non è tanto il significato della frase, ancora non decifrato, ma due elementi: una data e il materiale utilizzato. Il primo è facile da rilevare: sotto la frase è riportato il giorno della sua iscrizione, vale a dire il “sedicesimo giorno prima delle calende di novembre”. In pratica: il nostro 17 ottobre.
E chi ci dice che quella frase non fosse stata incisa qualche anno prima, invece del fatidico 79? Il materiale, appunto. Il carboncino, difatti, è di per sé fragile: non resiste molti giorni all’aria aperta. Quell’iscrizione, con tutta probabilità, aveva pochi giorni d’età prima che il Vesuvio la fermasse nel tempo assieme a tutto ciò che la circondava.