C’è una linea sottile che congiunge l’Austria a Napoli. E non è solo quella che è possibile tracciare sulla cartina geografica. Quella di cui parliamo è da ricercare nella dominazione asburgica cui Napoli fu sottoposta a partire dal 1707.
Come ogni dinastia regnante, anche quella di casa Asburgo portò con sé un po’ di ricette e tradizioni della propria terra. A nessuno piace dover rinunciare alle proprie abitudini, soprattutto a tavola. È per questo che Napoli è depositaria di una cucina tradizionale e popolare così ampia e variegata: segno delle innumerevoli dinastie che, dai Normanni ai Borbone, passando per gli Svevi e gli Angioini, sono passate in riva al Golfo.
Quella degli Asburgo, su cui ora ci soffermiamo, ha condotto con sé uno dei dolci più apprezzati della città, nonché esempio supremo di gustoso street food: la graffa. Una sorta di ciambella fatta di acqua, farina, lievito e patate lessate, successivamente fritta e poi cosparsa di zucchero. Un piccolo momento di felicità dei sensi che i napoletani amano ritagliarsi soprattutto a colazione.
La graffa partenopea sembra, infatti, trarre le sue origini dal Krapfen tedesco e austriaco. Con la differenza che quest’ultimo, diffuso un po’ in tutta l’Europa Centrale, non presenta il tipico buco nel mezzo della graffa ed è spesso ripieno di confettura. La parola Krapfen (dal longobardo Krapfo, che vuol dire “artiglio” o “uncino”) è stata commutata nella lingua napoletana in graffa. Nel tedesco antico tale parola era utilizzata per identificare la forma del dolce, che si è poi “arrotondata” grazie alla versione preparata a Napoli.
Quella del nome non è però l’unica differenza. Sul trono di Napoli, dicevamo, tanti re e dinastie sono passati. Compresa quella di Maria Carolina d’Asburgo Lorena che, a dispetto del nome della sua casata, era molto legata alla Francia di sua sorella Maria Antonietta.
Fu così che la regina decise di prendere a corte i migliori cuochi transalpini del Settecento, quelli che a Napoli sarebbero diventati i Monsù. Furono loro a inserire, nell’impasto della graffa, la patata: per rendere la consistenza finale del dolce più morbida e soffice al palato. E così, mentre nel Nord e Centro Europa continua a essere utilizzata l’antica ricetta fatta di sola acqua, farina e lievito, dalle parti del Mar Mediterraneo si aggiunge anche il famoso tubero. Difatti, data la consistenza già di per se stessa morbida della graffa, raramente quest’ultima presenta un ripieno, a differenza dell’antenata mitteleuropea.
Ai giorni nostri, la graffa è generalmente considerata come dolce del periodo carnevalesco. Ma, a differenza di prodotti come la pastiera e il rococò – che sono intimamente legati ai periodi festivi come la Pasqua e il Natale – la graffa è stata talmente apprezzata da diventare ormai una ricetta da preparare tutto l’anno. Anche per la sua effettiva comodità di consumo, dato che è tranquillamente considerabile – come dicevamo – un’espressione tipica dello street food napoletano.
Un’ennesima dimostrazione di come la cucina all’ombra del Vesuvio sia capace di assimilare e rielaborare qualunque tradizione: luogo d’incontro di diverse estrazioni popolari, che trovano qui la loro sintesi più sublime.