“Fiori spessi e viola aventi un unico stelo”. Sono passati migliaia di anni da quando Plinio il Vecchio descriveva, nella sua “Naturalis Historia”, le varietà di carciofi allora presenti.
Assieme a tutte le proprietà benefiche da esso apportate: rinfrescante per l'alito, curativo per l'alopecia, ottimo digestivo nonché - testuali parole dell'autore - stimolante «per il concepimento di figli maschi».
Che il carciofo sia effettivamente utile a quest'ultimo scopo è quantomeno discutibile; ma di certo non si può negare che tutt'oggi, a secoli di distanza, questa pianta erbacea sia ancora assai apprezzata in tutta Italia. A Roma, in particolare, esiste il primo prodotto italiano a essere tutelato col marchio europeo IGP: il carciofo romanesco, appunto, detto anche cimarolo o mammola.
Forma arrotondata e un po' schiacciata, molto compatto e di un colore che va dal verde al violetto, il carciofo romanesco è coltivato perlopiù nella zona del litorale laziale che va da Cerveteri a Ladispoli, quaranta chilometri a Nord di Roma. In questa zona i terreni sono ricchi di sesquiossido di ferro, molecola fondamentale per la regolare crescita del carciofo, responsabile anche di quel gusto un po' “ferroso”, appunto, che ritroviamo nel piatto. La raccolta è in genere manuale e comincia in marzo, per poi protrarsi di norma fino alla metà di maggio.
Nel corso degli anni, il carciofo è diventato un vero simbolo della cucina romana. Non esiste praticamente osteria tipica della Capitale o della provincia che non abbia a menù il carciofo alla giudia o quello alla romana.
Il primo, così definito perché ricetta tipica della popolazione capitolina d'origine ebraica, viene calato nell'olio bollente e fritto per intero, per poi essere condito con abbondante dose di sale; il secondo viene preparato in un tegame dai bordi alti e farcito con prezzemolo, mentuccia, aglio, olio extravergine di oliva e un pizzico di limone.