Pentoloni fumanti e traboccanti di una salsa color rosso vivo, resa ancor più densa dal concentrato di pomodoro. Il profumo è quello delle interiora di maiale, intenerite dalla rosolatura nello strutto e dalla prolungata cottura. La zuppa forte napoletana, detta ‘o suffritto, è una festa di sapori netti e decisi. Qui non c'è spazio per i compromessi.
Anni fa, l'uccisione del maiale era un rito che coinvolgeva tutta la famiglia. Il suino, allevato “in casa”, veniva suddiviso fra tutti i componenti del nucleo familiare. E siccome del maiale non si butta via niente, gettare nei rifiuti le interiora suonava quasi come una bestemmia. La zuppa forte napoletana nasce come una ricetta di recupero: cuore, milza, trachea e polmone sono gli ingredienti principali.
Sugna, olio extravergine di oliva, concentrato di pomodoro, vino rosso, alloro, peperoncino, aglio e rosmarino completano il quadro. Le interiora vengono prima rosolate in olio e sugna, accompagnate dal peperoncino, d'alloro, dall'aglio e dal rosmarino. Dopo aver sfumato con un po’ di vino rosso, si continua la cottura – per circa un'ora – col concentrato di pomodoro. Il risultato sarà una salsa densa, piccante e saporosa, accompagnata dal gusto pieno e soddisfacente delle interiora. Quello che a Napoli si definisce calloso.
“Quando non avevamo il pomodoro e nemmeno i peperoni, mangiavamo il zuffritto, una zuppa tradizionale napoletana, povera e proletaria”“La Cucina Napoletana” di Jeanne Carola Francesconi
Piccola parentesi linguistica, strettamente connessa alla ricetta: calloso, in napoletano, non ha nulla a che vedere con i calli. Si tratta di un termine sostanzialmente intraducibile in italiano o in altre lingue, che indica pietanze di consistenza né stopposa, né morbida, né troppo croccante. Una giusta consistenza “di mezzo”. Callosa, per l’appunto.
Continuando sul crinale linguistico ed etimologico, il perché del nome del piatto è presto detto: zuppa forte perché preparata con abbondante dose di peperoncino. Chiamato anticamente tosciano o, in alternativa, ‘o suffritto perché le interiora vengono soffritte a lungo in padella secondo il procedimento che abbiamo descritto.
Da sempre simbolo della cucina popolare napoletana, questo piatto è tutt'oggi apprezzato su molte tavole della città e della sua popolosa provincia, tanto da essere rielaborato spesso in chiave “gourmet” da osterie e ristoranti. ‘O suffritto unisce tutti: l’osteria di quartiere, con piatti traboccanti e fette di pane da affondare nella zuppa, e il ristorante d'alta fascia, che propone ricette con spaghettoni o bucatini ad accompagnare le interiora.
“Currite cannaruti, ca mo’ proprio l′accuppatura de lo tosciano. È cuotto, e tengo pure na veppetella d’amarena che co l′addore te rezorzeta no muorto; currite ‘mbreacune, a sei trise la carrafa e tengo la mangiaguerra pure a doje trise”
“Correte affamati, che è appena uscito il meglio del soffritto. È cotto, e ho anche un bicchierino di amarena che col suo profumo resuscita un morto; correte ubriaconi, a sei tornesi la caraffa e ho anche il vino mangiaguerra a due tornesi”Da una commedia di Pietro Signorelli
Una tendenza più contemporanea vuole la zuppa forte persino come condimento della pizza! D'altra parte, pane e pasta accompagnano da sempre questa ricetta che, in passato, era funzionale soprattutto a riempire le pance del popolo napoletano, con pochi soldi e poco sforzo in cucina.
Fino a qualche decennio fa, grosso modo negli anni del secondo Dopoguerra, la zuppa veniva esposta, nelle vetrine dei macellai, dentro grossi recipienti di terracotta bianca. Un contrasto cromatico tra il bianco candido della terracotta e il rosso denso e luminoso della salsa, che invogliava ancor di più all'acquisto.
Oggi il soffritto viene generalmente venduto già pronto in più pratiche – anche se sicuramente meno fascinose – scodelline di alluminio. Il valore quasi ancestrale del piatto non cambia però di una virgola: basta tornare a casa, versare in padella e allungare con un po’ d’acqua. Subito la cucina sarà invasa dai profumi che erano quelli delle aie e delle masserie dove le interiora venivano preparate e cucinate subito. Quello che oggi chiameremmo a chilometro zero.