Da un fascio di foglie dal colore verde scuro, nascono alcuni dei piatti più gustosi della cucina campana. Il friariello non è solo espressione di una cultura culinaria che risponde all’imperativo di non buttare mai nulla: è anche una verdura fra le più buone e saporose che la fertile terra della Campania Felix abbia mai regalato al suo popolo.
Parliamo di un’infiorescenza della cima di rapa, che raggiunge l’apice della sua qualità fra novembre e febbraio, diffusa nella provincia di Napoli che va da Acerra ai confini con Caserta, nella provincia di Benevento e nella Piana del Sele, a due passi dal Cilento. Il friariello, nella sua versione in padella con aglio, olio extravergine di oliva e peperoncino, è quella più nota.
Per capire perché abbia tutt’oggi un tale successo sulle tavole della Campania, bisogna guardare ai tempi in cui Napoli era Capitale del Regno delle Due Sicilie. A metà Settecento, quando sul trono sedeva Ferdinando IV assieme a sua moglie Maria Carolina di Asburgo Lorena, sorella della più famosa Maria Antonietta di Francia (proprio colei che sarà poi decapitata in pubblica piazza durante la Rivoluzione Francese).
Maria Carolina era infatti molto invidiosa della sorella, che sedeva sul trono di una città raffinata come Parigi. A suo dire, la Napoli popolare – assieme alla sua cucina – non faceva per lei. Piatti troppo pesanti e conditi, impensabili da presentare durante un pranzo di corte. Ecco che la regina cominciò, quindi, a convocare nel Palazzo Reale i signori, i “messieurs”, della cucina francese più ricercata: quelli che sarebbero poi stati indicati col termine “monzù”.
Da qui nasce quella cucina “fusion” franco-napoletana che sarà la base delle ricette contemporanee, dalla parmigiana di melanzane al ragù di carne, fino alle più svariate preparazioni a base di pesce, carne, verdure. Gli scarti, quelli che i francesi chiamano “les entrailles” – da cui il napoletano “zendraglie” – venivano letteralmente gettati al popolo. Che di certo seppe farne buon uso.
Fra questi scarti c’erano, infatti, oltre alle interiora degli animali, proprio i nostri friarielli. I monzù non sapevano che farsene, mentre il popolo napoletano ne tirò fuori tutti i sapori e i profumi in diverse preparazioni, da quella prima citata – la più semplice – con aglio, peperoncino e lo strutto al posto dell’olio – fino alle pizze e ai calzoni ripieni.
Il friariello rimane, tutt’oggi, il simbolo di una cucina di recupero, genuina e autentica, capace di restituire l’identità tipica di un popolo, unendola con la sua capacità di reinventarsi e di trovare sempre una strada. Uno dei motivi per cui, prima della “popolarizzazione” dei piatti aristocratici come il ragù di carne, i napoletani erano definiti “mangiafoglie”: le verdure, o meglio ancora gli scarti di queste ultime, erano una delle poche cose che potevano permettersi.
Verdura che, ad ogni modo, sembra sia conosciuta in Campania, e in particolare a Napoli, fin dal Seicento, quando sul trono sedevano i Viceré di Spagna. Non a caso una delle etimologie più quotate della parola friariello è quella che deriva dal castigliano “frio-gelos”, vale a dire una varietà tipica di broccoletti invernali. Altra ipotesi, più vicina al napoletano contemporaneo, è quella che si avvicina al termine “frjere”, in italiano “friggere”, alludendo così alla tipica preparazione del piatto.
Oggi il friariello è molto apprezzato con preparazioni di carne – grande classico l’abbinamento con la salsiccia di maiale – o finanche col pesce: molto apprezzato, infatti, l’accostamento con i calamari, che stemperano il retrogusto amarognolo tipico della verdura con la loro tendenza dolce. C’è chi, infine, sperimenta anche con i primi piatti, in particolare il risotto, mentre tutt’oggi resiste, e trova sempre più ammiratori, l’aggiunta del friariello come ingrediente alla classica pizza napoletana cotta nel forno a legna.