A metà Settecento, il panorama alle pendici del Vesuvio doveva essere molto diverso rispetto a quello che siamo abituati a guardare oggi.
All’epoca nessuno aveva ancora pensato che sotto la coltre di terreno potesse trovarsi un’intera città, cristallizzata da quella tragica eruzione che fissò per sempre l’attimo, immobilizzando il tempo e lo spazio in un continuo presente. Pompei era una scoperta ancora tutta da affrontare.
Nel 1748, durante il regno di Carlo di Borbone, vennero portati avanti i primi sondaggi archeologici. Per uno dei tanti equivoci della storia, alla stregua di un Cristoforo Colombo che pensava d’essere sulla traccia delle Indie, gli studiosi dell’epoca immaginarono di riportare alla luce ulteriori frammenti dell’antica Stabiae. Solo nel 1763, quindici anni dopo, venne trovata l’epigrafe Res Publica Pompeianorum. Segno che lì sotto doveva esserci una città ben distinta da tutte le altre che circondavano il panorama Vesuviano.
Passano gli anni, sul trono di Napoli ora c’è Ferdinando IV di Borbone con la moglie Maria Carolina, raffinata sovrana d’origine austriaca, amante dell’arte e del buon vivere. La casata borbonica comprende fin da subito che Pompei può tramutarsi in un vero tesoro – oltre che archeologico – anche di prestigio per coloro che ne avessero incentivato la scoperta. Per la prima volta nella Storia, alcuni ritrovamenti vengono riportati alla luce e non più sepolti.
Siamo nell’area più antica degli Scavi, quella che ancora oggi è compresa tra il Foro Triangolare, il Tempio di Iside e la zona dei Teatri. È da qui che Pompei torna a nuova vita, rompendo l’incantesimo in cui la cenere e i lapilli l’avevano racchiusa circa 1700 anni prima.
Quella dei Teatri, oltre a essere l’area dei primi scavi, è anche una delle zone più antiche in assoluto della città. Il Teatro Grande, in particolare, fu edificato già in epoca sannitica, ben prima del dominio romano. A testimoniarlo è anche l’aspetto stesso del teatro, che richiama i modelli ellenistici: una gradinata per gli spettatori costruita a ridosso di una collina, per sfruttarne il costone, e la forma a ferro di cavallo, ben diversa dall’emiciclo che sarà poi in voga presso gli antichi romani.
"Pompei, miracolosamente conservata dalla sua morte fulminea, superò ogni nostra immaginazione"Simone de Beauvoir
Davanti alle gradinate si apre poi il palcoscenico, incasellato nello splendido panorama che dai Monti Lattari digrada verso la Valle del Sarno. È qui che venivano messe in scena le Atellane, una delle forme di spettacolo più antiche dell’intera penisola italiana: commedia dai toni scherzosi e farseschi, spesso condita d’improvvisazione attoriale, che – per certi versi – può essere considerata l’antesignana della famosa commedia dell’arte.
Il Foro Triangolare era, invece, una sorta di “anticamera” per chi attendeva gli spettacoli. Spesso ci si incontrava sul posto per scambiare due parole in attesa dell’ingresso a teatro, oppure per assistere alle corse equestri. Anche qui troviamo una delle testimonianze più vetuste dell’antica Pompei, purtroppo quasi del tutto scomparsa: il tempio dorico del IV secolo avanti Cristo che determinò, di fatto, la costruzione del Foro con le sue 95 colonne dal medesimo stile. Che Pompei fosse in diretto contatto con la cultura ellenistica, è testimoniato anche qui dal fatto che i capitelli superstiti siano simili a quelli che troviamo nei templi della Magna Grecia, a partire dalla fine del VI secolo dopo Cristo.
Ed eccoci infine al tempio di Iside, una delle testimonianze più originali dei culti che permeavano la società pompeiana dell’epoca. Il primo dato che balza all’occhio è quello della divinità cui il tempio è dedicato. Iside, divinità egizia della maternità e della fertilità, il cui culto era diffuso soprattutto nel Delta del Nilo. Ennesima dimostrazione di come Pompei fosse una città aperta e cosmopolita, dall’antica Grecia alle religioni mediorientali, tanto da costruire templi in onore di divinità non “autoctone”.
La forma dell’edificio segue quella delle architetture religiose del II secolo avanti Cristo: un cortile porticato accoglie, al suo interno, il tempio posto su un podio, mentre nello spazio anteriore troviamo l’altare e una fossa per le offerte. Il culto di Iside era infatti molto sentito dal popolo pompeiano, in particolare i ceti meno abbienti, che vedevano nella Dea il simbolo della fertilità e quindi della salvezza, della speranza, della vita dopo la morte. Un culto salvifico, popolare e collettivo, che poco aveva da spartire con le religioni “ufficiali” legate a doppio filo col potere politico.
La parte più antica degli Scavi racconta, quindi, di una città sempre in movimento, mai rinchiusa su se stessa e costantemente aperta allo scambio culturale-religioso. Una Pompei “inedita”, per certi versi, che va ben oltre il racconto della città romana, affondando le sue radici in epoche lontanissime.