Tutti conoscono Halloween, la festa di origine celtica in cui i defunti tornano sulla terra per tormentare i vivi. Eppure, già molto prima gli antichi romani celebravano una simile ricorrenza durante il Mundus Patet.
L’8 novembre era la terza data dell’anno (dopo quelle del 24 agosto e del 5 ottobre) in cui veniva aperta la fossa che metteva in comunicazione il mondo dei morti con quello dei vivi. Era proibito iniziare una guerra, tenere comizi o prendere moglie e le porte dei templi erano addirittura chiuse. Insomma, erano giorni pericolosi in quanto il Mundus poteva risucchiare le anime dei vivi. Neanche gli autori latini più recenti conoscevano i tenebrosi segreti di questo culto arcaico. Un rito che nei secoli si è modellato fino a confluire nelle nostre tradizioni religiose.
Ma quando la fede vuole dettare legge anche nell’ignoto mondo dei morti, la credenza si trasforma in superstizione e le preghiere diventano suppliche contro il malocchio. Lo sapevano bene i romani, popolo pragmatico ma con un debole per l’occulto come si nota dal mosaico di un “Memento Mori” custodito al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. L’immagine, ritrovata in una vecchia conceria (Officina Coriariorum) di Pompei, rappresenta la ruota della fortuna. O, meglio, della vita il cui equilibrio è sempre precario con la morte in agguato in ogni momento.
“Sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces. Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero”.
“Filtra il vino e ad una breve scadenza limita la lunga speranza. Mentre parliamo sarà fuggito, inesorabile, il tempo: cogli l’attimo, il meno possibile fiduciosa in quello successivo”Orazio
La scena è ricca di simboli esoterici, usati più tardi anche negli ambienti massonici, che affondano le loro radici nella filosofia epicurea. A destra viene rappresentata la povertà, come si nota dal bastone, la bisaccia e le umili vesti del mendicante, mentre a sinistra appaiono gli emblemi della ricchezza quali lo scettro e la stoffa purpurea, tinta preziosissima ottenuta dalle ghiandole di murice, un mollusco molto utilizzato dai sarti degli imperatori. Al centro vi è una ruota (fortuna) che ha il potere di far cascare l’uomo in uno dei due lati opposti della società. Quando, però, il teschio (morte) si sarà staccato dal filo (tempo) a cui è appeso nulla avrà più valore. Solo la farfalla (anima), schiacciata dal suo peso, volerà via libera.
Non è un caso che il mosaico fosse esposto su una parete del triclinio (camera da pranzo). A Pompei, tali decorazioni sono frequenti in queste stanze perché contrappongono i piaceri della vita all’ineluttabilità della morte (da notare come in tutte le religioni sia forte il rapporto tra cibo e Aldilà: dall’antico Egitto, fino al torrone del 2 novembre o al “dolcetto o scherzetto” di Halloween).
I sontuosi banchetti romani, spesso al limite del pudore, vengono giustificati da questa inquietante presenza come stimolo a lasciarsi andare alle lusinghe del presente consapevoli del destino che ci tocca. Insomma, una vera e propria esortazione al carpe diem. Ne è un esempio un altro mosaico raffigurante uno scheletro pronto a mescerci del vino, anche questo conservato al Museo Archeologico di Napoli. Per il padrone di casa di Pompei è un invito a godere di quello che la vita offre perché non sai mai cosa può accadere domani. Magari il Vesuvio potrebbe esplodere…