La fine dell’inverno ha il sapore del Migliaccio. Le case napoletane, durante il periodo che precede il Martedì Grasso di Carnevale, sono invase da sentori e profumi che salutano il periodo “buio” dei rigori invernali per dare il benvenuto al nuovo ciclo vitale della terra.
Nessun dolce come il Migliaccio può vantare un rapporto così stretto con la civiltà contadina e con le tradizioni gastronomiche del Sud Italia.
Partiamo dalla parola stessa, che deriva dal latino Miliaccium, con cui ai tempi degli imperatori si indicava il pane di miglio. All’epoca non si parlava di farine raffinate, doppio zero, un solo zero, uno e via discorrendo. La farina di miglio era la regina delle tavole, soprattutto quando si trattava di preparare dolci. Una tradizione rimasta uguale a se stessa per secoli, fino alla prima metà del Novecento, quando il Migliaccio veniva preparato con il miglio e col sangue di maiale.
Sì: perché questo dolce, così come il sanguinaccio, veniva preparato proprio in concomitanza col periodo della macellazione del suino, quando nelle case di campagna era costume crescere in cortile il proprio maiale.
Il sangue di suino veniva considerato alimento sano, completo, nutriente, adatto a chi si svegliava prima dell’alba per il duro lavoro nei campi. I tempi poi sono cambiati, le leggi igienico-sanitarie in materia alimentare hanno proibito l’utilizzo del sangue in cucina e il Migliaccio ha cambiato volto, rispettando però la sua vocazione di dolce povero, adatto alla tavola di chiunque volesse prepararlo e gustarlo.
Pochi sono gli ingredienti che identificano un Migliaccio che si rispetti: semolino, uova, zucchero, latte, burro, ricotta, un baccello di vaniglia, più una scorza d’arancia o un limone per dare spessore agrumato. Qualcuno la chiama versione povera della Pastiera, che a Napoli e in Campania saluta il periodo Pasquale. Il Migliaccio ha però una sua identità precisa: di sicuro povera, ma non derivante da altri dolci della tradizione partenopea. È uno dei tanti esempi di come i napoletani, forti di una civiltà contadina radicata soprattutto nella provincia limitrofa, sappiano fare tesoro anche degli ingredienti più poveri e comuni. Forse nessun dolce, come questo, sottolinea l’inventiva e l’ingegnosità gastronomica di chi, povero in canna, aveva ben pochi soldi da spendere, a fronte di molto e duro lavoro regalato alla terra.
Oggi il Migliaccio non gode della stessa notorietà di altri dolci partenopei. Babà, sfogliatelle e pastiere sono ormai – letteralmente – sulla bocca di tutti. In pochi si sognerebbero di visitare la città senza prevedere di poter assaggiare almeno una di queste bontà. Il Migliaccio, fedele alla sua vocazione di “timido” fratello minore, sembra relegato in una posizione più appartata, lontano dai riflettori del showbiz dolciario. Eppure basterebbe un piccolo assaggio per apprezzarne una bontà figlia di secoli di storia.