Numero
26

Tra finzione e realtà

Tra finzione e realtà Tra finzione e realtà

Alcune dame in un immenso prato, come puntini colorati su uno sfondo tutto verde. È un dipinto che ritrae il Giardino Inglese della Reggia di Caserta, visto dal pittore di corte Jakob Philipp Hackert. Passeggiare oggi negli oltre venti ettari del giardino non produce un effetto molto diverso: ci si sente minuscoli rispetto ad uno spazio tanto esteso che sembra senza fine.

I vialetti segnano il percorso, ma il modo migliore per visitare questo luogo è farsi guidare dai suoni e dai profumi. Tra la fitta vegetazione, di un verde intenso, un incessante scorrere d’acqua attira l’attenzione. C’è una stradina in discesa che conduce alla fonte di questo suono. Lì ci sono alberi e cespugli, rocce, un laghetto che riflette e amplifica le sfumature tutte intorno. La luce è filtrata dai rami che nel tempo hanno creato una copertura su questo angolo incantato, una specie di cupola che termina sulla statua di Venere, pronta a immergersi nell’acqua.

Il Bagno di Venere è uno dei luoghi più sorprendenti del giardino, in cui natura e arte quasi gareggiano in quanto a capacità di stupire. Nel secolo XVIII una regina, Maria Carolina d’Austria, Carlo Vanvitelli e un giardiniere arrivato a corte appositamente dall’Inghilterra, Andrew Graefer, hanno progettato e realizzato dal nulla questo sogno fatto di piante esotiche, suggestioni esoteriche e richiami del passato.

Lo specchio d’acqua, la piccola sorgente, Venere, i profumati rami degli alberi e poi un colpo di teatro: si intravede una grotta e al suo interno fa capolino una statua. Pochi passi e si scopre che oltre la grotta c’è un passaggio coperto, il Criptoportico, tanto amato dagli antichi romani nelle loro dimore.

Entrando si calpesta quel che resta di un pavimento in marmo, mentre alle pareti ci sono tracce di stucchi colorati alternate all’opus reticulatum; poi nicchie con statue e una volta a lacunari che in alcuni punti è danneggiata, a tratti scoperchiata, tanto da vedere il cielo e la vegetazione al di sopra. Un criptoportico segnato dal fascino dell’antico, con un retrogusto decadente, in un contesto naturale lussureggiante. Troppo bello per essere vero… e infatti è tutto finto. O quasi.

“Sembrano le pareti ricoperte da preziosi, e ben variati marmi, che ad ora ad ora lasciano vedere l’opera ammandorlata e la cortina del muro per artificiosi crepacci e rotture; la volta altresì è caduta in due luoghi, e se ne scoprono i mattoni della testitudine, che ha perduto qua e là i suoi cassettoni e rosacci, cosicché la pioggia cade sul marmoreo pavimento bel tassellato dall’arte”.
Carlo Gastone Della Torre di Rezzonico

Le statue sono per la maggior parte antiche, opportunamente restaurate, come pure il sarcofago in porfido collocato a metà del percorso, provenienti dalla collezione Farnese e da Ercolano. Ma il criptoportico è un’invenzione settecentesca, pensata per instillare in chi lo attraversa la convinzione di scoprire qualcosa di sensazionale e antico che inaspettatamente si disvela. Una scoperta che si ripete con immutato stupore da secoli. La stessa emozione che in quel periodo dovevano provare a Ercolano e a Pompei dinanzi ai ritrovamenti archeologici.

Ad un certo punto si apre un varco, si vedono il lago e il maestoso albero di tasso: l’artefatto dialoga con il naturale. O forse no. Perché l’intero giardino, ogni sua pianta, albero o cespuglio rispondono ad un preciso disegno, immaginato dalla regina.

Dunque, ciò che sembra antico non lo è del tutto, ciò che sembra incontaminato non lo è per niente. L’acqua continua a scorrere, ma nel criptoportico il tempo è come sospeso, e con piacere si crede a questo dolce inganno.