Per una volta, il riflesso sulle acque cristalline del nord Sardegna resta ai margini dello sguardo, la suggestione del Golfo dell’Asinara attira ma non travolge.
C'è un'ombra che rimane al centro della coscienza, anche per i viaggiatori più distratti: il fantasma della colpa, il ricordo della punizione sono presenze inevitabili nell'isola strappata al destino da supercarcere. È vero, l’Asinara è stata restituita alla gente comune, al posto delle catene si vede qualche zainetto, e le macchine fotografiche hanno sostituito le Beretta dei secondini. Ma l’odore dell’abbronzante non riesce a vincere quello della sofferenza, diffuso per decenni dai detenuti. E un viaggio lento, a piedi, lungo i sentieri di questa isola bella e complicata, è il modo migliore per sentirlo.
Non servirà nemmeno ripassare il bianco sulle mura delle vecchie strutture, perché il blu delle sbarre scrostate racconta sempre la stessa storia. Qui attorno i cespugli di corbezzolo si piegano sotto le folate brusche del maestrale, ma sembrano raccontare una prospettiva di rassegnazione, scandita dai passi indolenti dei condannati. Gli asinelli bianchi strappano un momento di distrazione, il visitatore ritorna a fare l'esperienza della natura di Sardegna, ma l'incanto dura poco.
Chi si affaccia sugli scogli scabri capisce immediatamente che non ispirano il tuffo, ma suggeriscono una leggenda: sarà stato qui, o più avanti che il gommone era stato nascosto per la prima evasione, che spezzò il mito di inviolabilità e sancì l'inizio della fine per l’Alcatraz italiana?
Ci sono brandelli disordinati di storia del Mediterraneo, impigliati nei rami del lentisco e del mirto: i resti del castello che la leggenda vuole abitato dal pirata Khayr al Din Barbarossa, l'ossario dei militari austroungarici, che qui riposano da un secolo, la cappella di Cala Reale. Ma è soprattutto il passato recente quello che si rifiuta di passare.
Qui, nella struttura di Fornelli, si è affacciato lo spettro degli anni di piombo, quando lo Stato voleva piegare con la forza dell’isolamento senza fine gli irriducibili delle Brigate rosse. Qui è passato l’incubo dei sequestri, perché era nell’isola che finivano i protagonisti dell’Anonima Sarda strappati alla latitanza nel Supramonte. Qui persino la mafia si è sentita strangolare, con i boss prima imbattibili sconfitti della durezza del 41 bis.
Eppure al viaggiatore l'impressione della prigionia opprimente, attaccata in modo indissolubile a questo sfondo, sembra unirsi a un sogno di rinascita, o persino di redenzione. Forse è il racconto delle attività affidate ai condannati: l'allevamento di capre e maiali, l'attenzione alle stalle, la raccolta della legna, la cura della piccola vigna. Ascoltando bene il sibilo del vento si capisce che nasconde una promessa, quella di un'altra vita.