«ll comfort food è quel cibo, quella pietanza che ristora l’anima e il corpo – si legge sui dizionari online – quel piatto che dopo una giornata decisamente no ha il potere di farci sentire protetti, coccolati e appagati».
La cucina popolare romana, e laziale più in generale, sembra fatta apposta per corrispondere a questa definizione. Se carbonara, cacio e pepe e amatriciana sono di fatto entrate nell’immaginario collettivo, la gricia gode ancora di minore fama. Eppure parliamo della base. Ciò da cui tutto è nato, almeno per quanto riguarda carbonara e amatriciana. La gricia, difatti, è un gustoso piatto a base di guanciale, pecorino e pepe macinato. Niente di più, niente di meno.
«Molti considerano la gricia come la sorella povera dell’amatriciana – ci dice Flavio De Maio, proprietario dello storico ristorante Flavio al Velavevodetto, nel popolare rione romano di Testaccio – ma ridurla in questi termini significa veramente fare un torto alla nostra tradizione gastronomica. La gricia è una ricetta dove gli equilibri contano, forse più che in ogni altra pietanza del territorio laziale. Proprio perché non ci sono altri ingredienti, come pomodoro e uova, che possano “correggere” eventuali errori di esecuzione».
Il segreto, secondo lo chef Flavio, è quello di non far asciugare troppo il guanciale in fase di rosolatura, facendo sì che doni il suo grasso ma non diventi al contempo troppo secco. Dopodiché è tutto un gioco di equilibri fra la quantità di pecorino (rigorosamente in purezza, non mescolato al Parmigiano o al Grana!) e il pepe. L’acqua di cottura della pasta, ricca di amido, creerà poi quell’emulsione con il grasso del guanciale che genererà la famosa “cremina”.
Fin qui la ricetta. Ma perché il nome “gricia”? «L’origine del termine – scrive l’Associazione Amici di Grisciano, che da anni ne tutela e tramanda la ricetta originale – potrebbe risalire alla Roma del ‘400, dove Gricio era l’appellativo con cui venivano indicati i panettieri, quasi tutti provenienti dalle regioni tedesche del Reno e dal Canton de’ Grigioni».
“Mo te consijo ‘na cosetta cicia ma bona, pepe e cacio solamente, che cor guanciale poi se chiama Gricia. E m’hai da crede, dentro a quattro mura magnà in mutanne… Senza un fiato… Gnente… Se gode più de’ la villeggiatura”Tratto dalla poesia “Spaghettini alla scapola” di Aldo Fabrizi
Il termine Gricio andava così a indicare lo spolverino che i panettieri utilizzavano come divisa per il loro lavoro. «Col tempo – prosegue l’associazione – oltre al senso positivo del riferimento regionale, rapidamente assunse anche un altro significato dispregiativo, equivalente a burino, per indicare un uomo malvestito e di modi grossolani». Il motivo? I panettieri dell’epoca, a quanto sembra, non erano proprio dei modelli di eleganza per quanto concerne il vestiario.
Al di là dell’estetica, le botteghe dei “grici” erano sempre aperte, dall’alba fino a notte fonda. Non di rado capitava che ristorassero i viandanti, finanche qualche pellegrino giunto nella città dei Papi. Il piatto che solevano preparare, come intuibile, era proprio la gricia: gustoso, nutriente e soprattutto economico.
L’altra teoria sulla nascita del piatto, altrettanto accreditata, è legata alla transumanza, con i pastori provenienti dai vicini Abruzzi che si nutrivano di formaggio e guanciale perché nutrienti e poco deperibili durante le lunghe traversate. Una ricetta solidamente ancorata alla tradizione popolare del centro Italia.