Le differenze fra le città sarde danno luogo ad una varietà di costumi, colori e sapori che costituisce la vera ricchezza dell'isola, una regione dai luoghi sempre diversi. Questa peculiarità si nota anche in uno dei suoi piatti più rappresentativi.
Grassottelli come i panzarotti e più morbidi dei ravioloni, i culurgiones descrivono le abitudini delle comunità sarde quanto un nuraghe può raccontare la storia dei quattro mori. La loro nascita risalirebbe al Medioevo, ma è solo nell'800 che il piatto viene identificato così come lo conosciamo oggi, quando la coltivazione di patate prende piede in Ogliastra. Partendo da est, i culurgiones si diffondono gradualmente in tutta la Sardegna cambiando ingredienti e condimenti a seconda dei prodotti consumati in una provincia, per le usanze culinarie di un villaggio o in base ad esigenze familiari.
L'impasto, realizzato con farina di semola, viene steso fino a creare una sfoglia sottile. Con un bicchiere si ricavano tanti cerchi di 4-10 cm di lunghezza e di 3-5 cm di larghezza sui quali viene posto un ripieno a base di patate, formaggio e menta. Solitamente i formaggi utilizzati sono il “viscidu”, conservato in salamoia, e il “casu axedu”, prodotto con latte ovino dalla pasta fresca e cremosa. La loro miscela regala al palato un sapore intenso, stemperato dal gusto dolce delle patate. Basta un morso per sprigionare un piacere avvolgente...
Per evitare che l’imbottitura esploda fuoriuscendo dall'agnolotto, sui lembi del dischetto di pasta viene ricamata con dei pizzichi una chiusura a forma di spiga, la cosiddetta sa spighitta. Ed ecco spiegato questo arcano simbolo che li impreziosisce: secondo la tradizione, i culurgiones fungono da amuleto per propiziare il nuovo raccolto del grano. Si tratta di un gesto rapido da fare con entrambe le mani dal quale deriverebbe anche il nome della pietanza: culina (cucina) ed urgeo (mi affretto). Dopo di che bisogna lasciarli asciugare in setacci e cucinarli il giorno dopo.
La ricetta classica prevede un sugo semplice di pomodoro con pecorino grattugiato. Possono anche essere insaporiti con burro e salvia o, perché no, fritti o al forno. Ma nella stessa Ogliastra i pareri sono discordanti: a Gairo nel ripieno si usano patate, aglio e menta, che invece viene sostituita dalla nepitella a Ulassai e Jerzu. In Barbagia la farcia è fatta di solo pecorino fresco, mentre il condimento è dato da salsa di pomodoro e salsiccia sbriciolata. Nelle zone vicino al mare, come Tortolì o Loztorai, le patate e il formaggio sono ingredienti secondari rispetto alla cipolla che dona a queste primizie un sapore dolciastro.
A sud, nel Campidano, vengono preparati con ricotta fresca ovina, uovo e zafferano e, per non farsi mancare niente, c'è chi aggiunge anche bietole o spinaci. Vi è perfino una versione dolce in cui sono imbottiti con ricotta fresca, mandorle e canditi. Per non parlare delle evoluzioni della cucina moderna, che spesso si spingono in sperimentazioni che ne tradiscono l'essenza.
Oggi possiamo trovare queste golosità in qualsiasi periodo dell'anno, ma le varianti più conosciute appaiono solo in alcune stagioni. Ad agosto e a Natale sulle tavole si presentano i culurgiones de casu, tipici dell'Ogliastra, ripieni esclusivamente di formaggio. A Carnevale sono in voga quelli de ollu ‘e porcu, ovvero fatti con lo strutto. Infine, il giorno della commemorazione dei morti, come accade soprattutto a Sadali, si mangiano i culurgiones de olluseu, in cui è presente il grasso di ovino.
Un errore nella preparazione viene sempre perdonato nonostante l'esistenza di un apposito disciplinare. L'unica accortezza è di servirli nel piatto sempre in numero dispari, disponendoli in modo da formare i chicchi di una spiga di grano o i petali di un fiore. È solo una premura, una prassi senza età che per un sardo ha più valore di qualsiasi regola scritta.